Biancaneve e i settenari

In libreria dall’11 maggio c’è Biancaneve e i settenari, un’Antologia di poesia giocosa curata da Stefano Bartezzaghi per la collana Amletica leggera di Bompiani. I testi sono di Marco Ardemagni, Duccio Battistrada, Gianni Cossu, Matteo Pelliti, Luciana Preden, Giuseppe Varaldo e miei.

Alcuni erano venuti a conoscenza dei Limerick leggendo Linus. Alcuni avevano visto Gigi Proietti recitare con frenetiche rotazioni di pupille la fànfola del Lonfo, di Fosco Maraini. Altri avevano incontrato componimenti di Toti Scialoja sia in libri illustrati per bambini sia su riviste d’avanguardia, con tanti topini, folaghe e paronomasie. Qualcuno risolveva rebus e cruciverba; altri erano stati a Parigi e spargevano leggende fumistiche su una certa setta di scrittori e matematici. Qualcuno ha osato per primo usare la parola proibita: “gioco”. Parola da perdigiorno, parola non seria, parola puerile. Tra autrici e autori, le sette firme che si sono date appuntamento per esercitarsi nelle discipline dell’Amletica leggera sono note a chi frequenta luoghi e siti dediti alla fantasia verbale e alla sua estrosa grammatica. Le loro poesie stupiscono per la virtuosa giocoleria delle soluzioni ma anche per quel che riescono a dire, sotto “il legame de li versi strani” (semicit.). Si gioca, ma non si scherza. Si ride, ma non si smette di pensare.Alcuni erano venuti a conoscenza dei Limerick leggendo Linus. Alcuni avevano visto Gigi Proietti recitare con frenetiche rotazioni di pupille la fànfola del Lonfo, di Fosco Maraini. Altri avevano incontrato componimenti di Toti Scialoja sia in libri illustrati per bambini sia su riviste d’avanguardia, con tanti topini, folaghe e paronomasie. Qualcuno risolveva rebus e cruciverba; altri erano stati a Parigi e spargevano leggende fumistiche su una certa setta di scrittori e matematici. Qualcuno ha osato per primo usare la parola proibita: “gioco”. Parola da perdigiorno, parola non seria, parola puerile. Tra autrici e autori, le sette firme che si sono date appuntamento per esercitarsi nelle discipline dell’Amletica leggera sono note a chi frequenta luoghi e siti dediti alla fantasia verbale e alla sua estrosa grammatica. Le loro poesie stupiscono per la virtuosa giocoleria delle soluzioni ma anche per quel che riescono a dire, sotto “il legame de li versi strani” (semicit.). Si gioca, ma non si scherza. Si ride, ma non si smette di pensare.

Di come il ‘600 e il Barocco siano ripetutamente venuti a cercarmi.

1. Ero a Napoli e la mia vita quotidiana di studentessa fuori sede si svolgeva, nei primi anni, principalmente lungo il decumano che mi portava da casa alla facoltà di architettura e ritorno: era il decumano inferiore, quello conosciuto come Spaccanapoli, che percorrevo a partire da via Duomo fino a Santa Chiara, alla statua del Nilo, al bugnato di piazza del Gesù e infine a Palazzo Gravina.
Molto più raramente percorrevo, invece, il decumano maggiore, via dei Tribunali, passando accanto alla piccola chiesa barocca di Santa Maria delle anime del Purgatorio, ma soprattutto accanto ai due paracarri ai lati della scala, con in cima due teschi di bronzo, che se sfiorati portavano fortuna ma non per questo erano meno inquietanti, come nelle intenzioni di chi li aveva concepiti, come quelli della balaustra della Certosa di San Martino.

Un giorno, passando per quella strada notai un edificio che avevo sempre visto chiuso per lavori in corso e che ora, fresco di restauro, aveva il portone aperto. Era il Pio Monte di Misericordia. Non ne sapevo niente, non sapevo cosa custodisse e non so dire perché non potei fare a meno di entrare.
La prima cosa che mi trovai di fronte, e l’unica di cui conservo il ricordo, fu “Le sette opere di Misericordia” di Caravaggio. Non sapevo che quel dipinto fosse lì, né dove fosse stato custodito durante i lavori di restauro dell’edificio, non sapevo niente di niente. Per un attimo pensai fosse una stampa, una riproduzione, ero confusa per la casualità totale di quell’incontro ma anche per una sua certa inevitabilità: passi per una strada del centro antico di Napoli (antico, in facoltà ci tartassavano sul fatto che quello era il centro antico, non il centro storico), tra strilli e sfrecciare di motorini e frutta e verdura e pesce e vini e olii e boulangerie e banco lotto e crémerie, ti volti a guardare oltre una porta aperta e dopo pochi secondi ti trovi davanti a Caravaggio: sembrava impossibile, eppure perfettamente coerente.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Sette opere di Misericordia, 1606-1607, Olio su tela, 390×260 cm, Napoli, Pio Monte della Misericordia

2. Ero a Roma da visitatrice e camminavo lungo Corso Rinascimento. Sicuramente ero entrata in San Luigi dei Francesi, una chiesa di cui non ricordo mai niente e di cui non saprei dire niente: ogni volta che ci sono entrata sono andata direttamente verso la navata laterale sinistra e l’ho percorsa fino alla cappella Contarelli per ubriacarmi di Caravaggio, a volte nella penombra, a volte nella luce elettrica a tempo e al costo di una moneta. Ero intontita e abbagliata – non so se più dalla luce che mi aveva investita all’uscita dalla chiesa o da quella caravaggesca che mi aveva accolta nella cappella – e stavo costeggiando un edificio la cui facciata rifletteva ancora luce del sole caldo di quel giorno. Sul muro vasto, tinteggiato di ocra, quasi completamente privo di aperture per tutto il primo livello e che sembrava non finire mai, a un certo punto si aprì un portone oltre il quale non potei fare a meno di guardare e poi andare, attratta da qualcosa che ancora non sapevo e che mi mosse con tutta la forza della sua bellezza. Scoprii che mi trovavo nel cortile di Sant’Ivo alla Sapienza e che avevo di fronte a me la facciata della chiesa di Borromini, di cui conoscevo, dalle foto e dai disegni, la meravigliosa pianta fondata su una stella a sei punte, e poi la lanterna elicoidale e quanto ne aveva scritto Paolo Portoghesi.
Quando alzai lo sguardo, la spirale in cima alla cupola disegnò perfettamente la mia vertigine.

Cortile della Sapienza e chiesa di Sant’Ivo

Di questo incontro ho avuto modo di scrivere/anagrammare anche qui.

3. Sempre a Roma e sempre da turista, diversi anni dopo, camminavo per Via del Corso e non ricordo da dove venivo né dove andavo, so solo che in quel momento ero sul lato sinistro della strada in direzione di Piazza Venezia, camminavo e guardavo le vetrine. Un negozio mi attrasse non tanto per quello che mostrava la vetrina (non ricordo nemmeno cosa esattamente ci fosse esposto o se ci fosse esposto qualcosa) ma perché dalla porta vedevo una galleria con una prospettiva che mi sembrò falsa come quella borrominiana di Palazzo Spada: uno specchio, sul fondo, raddoppiava lo spazio scandito da colonne e, riflettendo la stessa porta a vetri dell’ingresso, creava illusionisticamente una seconda apertura, insomma un percorso dall’ingresso a un’uscita che in realtà era inesistente. Il controsoffitto era un intreccio di linee curve che partivano dalle colonne come costoloni di volte a crociera, ma in assenza di volte a crociera. Tutto questo mi fece pensare al barocco, a Borromini, o a una moschea. Pensai che sembrava un lavoro di Paolo Portoghesi. Niente di paragonabile all’epifania di Caravaggio e a quella di Borromini, però ne fui molto colpita. Qualche tempo dopo, scoprii su una rivista che sì, la ristrutturazione dello “show room Sarteur” in via del Corso era proprio un progetto di Paolo Portoghesi, l’autore di Roma Barocca, esperto di Borromini, progettista della Grande Moschea di Roma.
Di quel negozio non è rimasto niente della ristrutturazione di Portoghesi. In un suo libro pubblicato recentemente, c’è un passaggio su tre sue opere romane, tra le quali proprio la galleria Sarteur, che Portoghesi dichiara «[…] già distrutte. Forse queste tre opere avevano la transitorietà nel sangue perché alludevano a spazialità contraddittorie e allusive, e nella memoria sono incise come storie impossibili, apparse per un momento, proiettate su uno specchio da una lanterna magica».

Forse le cose che amiamo, eterne o effimere che siano, non siamo noi a cercarle. Sono loro a trovarci, in un modo o nell’altro, ed è per questo che ce ne innamoriamo.

P. S. E ce ne innamoriamo anche perché insistono a cercarci: ieri sera, mentre scrivevo questo post e cercavo disperatamente un’immagine della galleria di Portoghesi (trovandone solo una), ho visto alcune fotografie degli interni di casa sua. Su una parete, una bellissima carta da parati di William Morris. Stamattina, una mia amica ha pubblicato su facebook la foto di una tazzina con un bellissimo disegno di William Morris. Mi sembra che il disegno sia esattamente lo stesso. E mi viene quasi da piangere.

La foto del dipinto di Caravaggio viene da qui, quella del cortile della Sapienza è mia, quella della carta da parati di William Morris viene da qui, l’ultima è di Annalisa Passigli.

Il frigorifero (Per casa. Quartine in quarantena, 3)

[La casa non ci è mai appartenuta tanto come in questo tempo, non ci è mai sembrata così stretta e contemporaneamente così protettiva come adesso, così una prigione e così una salvezza.
Giro per casa, una casa che abitiamo da poco tempo, che non avevamo ancora finito di sistemare quando siamo stati condannati a non potercene allontanare, una casa che ha dunque iniziato prima del previsto ad appartenerci, nonostante i colori, gli affacci, gli spazi diversi da quelli cui eravamo abituati.
Giro per casa e mi guardo intorno, rimugino sulle corrispondenze tra com’è e come avremmo voluto che fosse, sui piccoli e indispensabili lavori che ancora avremmo dovuto fare e che chissà quando e se si faranno mai, sistemo le cose e ne ritrovo di dimenticate o trascurate, apro qualche ultima scatola, sposto e ricolloco. Rivedo oggetti preziosi come i piccoli sassi che raccoglieva e conservava Luca – che mi rimandano ai fiori che, piccolissimo, mi portava dai parchi, ora stretti nelle pagine dei libri – o come i disegni suoi e di Paolo e i foglietti con le prime parole scritte e gli infiniti pizzini «ti voglio bene».
Per caso mi sono ritrovata a scattare alcune foto per casa, ognuna di per sé di poco conto, ognuna ispiratrice di una quartina.]

 

Frigorifero

 

Come una mostra una esposizione

– collezione privata – collazione

mutevole e nevrotica. L’interno

perfetto simulacro dell’inverno.

 

Il violino di Luca (Per casa. Quartine in quarantena, 2)

[La casa non ci è mai appartenuta tanto come in questo tempo, non ci è mai sembrata così stretta e contemporaneamente così protettiva come adesso, così una prigione e così una salvezza.
Giro per casa, una casa che abitiamo da poco tempo, che non avevamo ancora finito di sistemare quando siamo stati condannati a non potercene allontanare, una casa che ha dunque iniziato prima del previsto ad appartenerci, nonostante i colori, gli affacci, gli spazi diversi da quelli cui eravamo abituati.
Giro per casa e mi guardo intorno, rimugino sulle corrispondenze tra com’è e come avremmo voluto che fosse, sui piccoli e indispensabili lavori che ancora avremmo dovuto fare e che chissà quando e se si faranno mai, sistemo le cose e ne ritrovo di dimenticate o trascurate, apro qualche ultima scatola, sposto e ricolloco. Rivedo oggetti preziosi come i piccoli sassi che raccoglieva e conservava Luca – che mi rimandano ai fiori che, piccolissimo, mi portava dai parchi, ora stretti nelle pagine dei libri – o come i disegni suoi e di Paolo e i foglietti con le prime parole scritte e gli infiniti pizzini «ti voglio bene».
Per caso mi sono ritrovata a scattare alcune foto per casa, ognuna di per sé di poco conto, ognuna ispiratrice di una quartina.]

Il violino di Luca

 

C’è un suono che mi cura e ti somiglia
di sole e nuvole, violino-fiore
di campo, pietre rare e meraviglia,
figlio mio malinconico, mio amore.

La stanza di Paolo (Per casa. Quartine in quarantena,1)

[La casa non ci è mai appartenuta tanto come in questo tempo, non ci è mai sembrata così stretta e contemporaneamente così protettiva come adesso, così una prigione e così una salvezza.
Giro per casa, una casa che abitiamo da poco tempo, che non avevamo ancora finito di sistemare quando siamo stati condannati a non potercene allontanare, una casa che ha dunque iniziato prima del previsto ad appartenerci, nonostante i colori, gli affacci, gli spazi diversi da quelli cui eravamo abituati.
Giro per casa e mi guardo intorno, rimugino sulle corrispondenze tra com’è e come avremmo voluto che fosse, sui piccoli e indispensabili lavori che ancora avremmo dovuto fare e che chissà quando e se si faranno mai, sistemo le cose e ne ritrovo di dimenticate o trascurate, apro qualche ultima scatola, sposto e ricolloco. Rivedo oggetti preziosi come i piccoli sassi che raccoglieva e conservava Luca – che mi rimandano ai fiori che, piccolissimo, mi portava dai parchi, ora stretti nelle pagine dei libri – o come i disegni suoi e di Paolo e i foglietti con le prime parole scritte e gli infiniti pizzini «ti voglio bene».
Per caso mi sono ritrovata a scattare alcune foto per casa, ognuna di per sé di poco conto, ognuna ispiratrice di una quartina.]

La stanza di Paolo
Hai voluto un colore su ogni muro
– ogni riccio un’idea – mia bella elica
di luce – turbinìo di amore puro
bambino d’indole pantagruelica.

Il mondo era fatto di questo

Il mondo era fatto
di zie e zii
compresi quelli che non lo erano
di fichi a settembre e pomodori a seccare
bulli che non si chiamavano bulli
ma stronzi
attese di giorni di festa
leopardiane senza saperlo
attese di giorni di sole
neve che non si scioglieva
inverni che iniziavano ad agosto
suore vecchissime nell’unico asilo
rose sfogliate dal vento
petali e profumo di ginestre
sulle strade dove passava il santo
vociare di pranzi dalle finestre
cani liberi e amici
e case con le porte aperte
ubriachi che rincasavano cantando
inciampando e bestemmiando
e suoni di fisarmoniche
vedove in nero per tutta la vita
preghiere incomprensibili in latino
libberanosdòmmine
e il pullman grigio all’alba
città irraggiungibili
cappotti rivoltati e cappelli in mano
zappe pesantissime
coperte all’uncinetto
ricami preziosissimi
e mele sotto il letto
galline sulle strade
stazioni sconosciute
via crucis come funerali
funerali come via crucis
e croci ai crocicchi
negozi dove comprare
carta leggera di sigarette
candeggina “medicina per i panni”
e cioccolata a forma di formaggino
crocchie di capelli mai tagliati
e pettenesse
uva spina
e spille da balia
dicerìe feroci
e vite rovinate.
Il mondo era fatto di questo.
Di bello ben poco
ma tutto – nel ricordo – bellissimo
e solo perché perduto.

Il Ponfo

La delirante guerra tra opposte fazioni che imperversa in questi giorni sui social a proposito di vaccini mi ha fatto realizzare come la poesia metasemantica, se non fosse per una M di troppo, si potrebbe agevolmente anagrammare in poesia esantematica. L’avevo scritto ieri in un post su Facebook e ne era nata una conversazione, anch’essa abbastanza delirante ma divertente, con alcuni amici. Se poesia metasemantica evoca immediatamente il Lonfo, va da sé che malattia esantematica evochi il Ponfo. Da qui, grazie alla sollecitazione dell’amico Marco Alfano, è nata questa mia specie di parodia, sempre con tutto il rispetto e il grandissimo amore per Fosco Maraini e per le sue fanfole, già più volte mia fonte di ispirazione.

Il Ponfo

Il Ponfo non smorbilla e non varisce
rosseggia e derma, rascia e poi s’acquatta
e quando il savalente lo ghermisce
esanto e matico, sovente schiatta.

Rossolio è il ponfo e pieno di liquello
sbercia imbolloso, luspo, mai dermiente,
e in compagnia sgraffendo questo e quello,
sbrucia e sbrucia con grattico furente.

Eppure il vecchio ponfo scarlattino
che papuloso invéscica prudello,
se istaminchiando scurtichi eczemìno

t’abbandona, ti tira lo sgramello
crostico, e nello spazio d’un mattino
resti sperduta in fondo al varicello.

 

Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce,
sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.

È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.

Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa legica busia, fa gisbuto;

e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui, zuto
t’ alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

Fosco Maraini, Il Lonfo, in Gnòsi delle fanfole, Baldini&Castoldi, 1994, p. 23

Mia nonna, quando rideva e quando piangeva, non riusciva a smettere

Mia nonna, quando rideva e quando piangeva, non riusciva a smettere. Soprattutto noi bambini, perciò, facevamo di tutto per farla ridere e poi stavamo lì a ridere anche noi, in un reciproco contagio che andava avanti all’infinito, con lei che sussultava sulla sua sedia – una sedia larga con i braccioli, dove l’abbiamo sempre vista seduta nei suoi ultimi anni di vita, quando non riusciva quasi più a camminare – stringendo gli occhi, il viso contratto in quella risata e contornato da un fazzoletto scuro annodato alla nuca (mai l’abbiamo vista con la testa scoperta, e mi viene da ridere se penso a quante parole si siano già sprecate a proposito dei veli delle donne islamiche, nel più totale oblio di nostre usanze anche abbastanza recenti). Non si trattava mai di una risata sguaiata – mia nonna era una donna riservata – e forse era proprio il tentativo di trattenerla che la rendeva inarrestabile.
Una volta che mia nonna non riusciva a smettere di piangere è stato quando il più giovane dei suoi figli, già da anni emigrato negli Stati Uniti, è ripartito dopo essere tornato in Italia, con la moglie e le due piccole figlie, per un breve periodo di vacanza. Credo abbia pianto per giorni.
Un’altra volta che non riusciva a smettere di piangere è stato quando mia madre è andata a salutarla prima di partire per un viaggio verso una città lontana, dove andava per provare a curare la sua malattia in un ospedale.
Una volta che mia nonna non riusciva a smettere di ridere, invece, è stato quando io, molto piccola, le ho chiesto di fare una cosa per me. Lei e mio nonno, che erano sarti, mi insegnavano a fare piccole cuciture con la macchina Singer, a fare imbastiture, a raccogliere con una calamita aghi e spilli caduti sul pavimento e a fare i bottoni con un apposito torchio: si ritagliava un pezzetto di stoffa circolare e lo si infilava in una matrice (un cilindro di ottone), vi si sovrapponeva un’anima di alluminio, si ripiegava la stoffa verso il centro dell’anima e si copriva con il secondo pezzo del bottone, quello posteriore con il buco in cui deve passare il filo. Poi si chiudeva la matrice, sovrapponendo al primo un secondo cilindro di ottone, una specie di pistone, e si pressava facendo ruotare la leva del torchio che azionava la pressa con una grossa vite senza fine. Alla fine si riapriva la matrice e ne veniva fuori il bottone finito, cosa che per me aveva, ogni volta, del miracoloso. Imparai pure che qualcosa si crea ma sicuramente nulla si distrugge e tutto si trasforma: che i cappotti, ad esempio, rivoltati e rifoderati tornavano come nuovi, o che dai campioni di tessuto, piccoli rettangoli incollati sulle pagine del campionario (che sfogliavo ogni volta con grandissimo interesse, neanche fosse un album di fotografie), staccati da quell’album – quando era ormai fuori moda – e cuciti l’uno all’altro, si poteva ricavare una coperta. Imparai, infine, il linguaggio che si usava nella sartoria, fatto quasi esclusivamente di termini dialettali o comunque gergali, e appresi che una cucitura a macchina semplice e in linea retta, loro la chiamavano bacchetta. Mia nonna usava dei grembiuli cuciti da lei (come era cucita da lei o da mio nonno qualsiasi cosa fatta di stoffa che si trovasse in casa, dalle coperte ai cappelli, passando per certe coperture anti-polvere di tessuto leggero per il televisore e per la grossa radio). Questi grembiuli erano del tipo a mantesino e avevano una larga tasca centrale divisa in due scomparti da una cucitura. Non ricordo cosa tenesse in quei due scomparti, non so se la tasca fosse fatta in quel modo per qualche ragione particolare o solo perché a lei piaceva così, ma non ne vedevo indossati da altre donne grembiuli con quella tasca doppia e ne ero, chissà perché, affascinata. Un giorno – avrò avuto 4 o 5 anni – le chiesi se poteva cucire anche per me un grembiule come quello suo, quello con la tasca con la bacchetta al centro. Dissi proprio così e lei cominciò a ridere, a ridere senza potersi fermare. Benché contagiata, io quella risata non la capii del tutto, ma a mio modo percepii che fosse dovuta a un misto di tenerezza, di orgoglio per la nipote che aveva usato il linguaggio della nonna, di sorpresa per aver sentito pronunciare, dalla voce di una bambina così piccola, un termine così specialistico. E a lungo, anche dopo che il piccolo grembiule mi fu confezionato – bianco, con una rouche sia sui tre lati che intorno alla tasca divisa in due dalla bacchetta – il racconto di quella mia richiesta fu ripetuto da mia nonna più volte, e ogni volta scatenando un’ilarità che niente riusciva a fermare.

Luoghi a(nagram)mati: a Capo Sounion

http://www.athensattica.gr/it/you-are-here-3/what-to-see/neighborhoods/item/9440-cape-sounion

L’immagine viene da qui

Quell’anno fu veramente cupo – come l’anagramma ha puntualmente svelato – ma rischiarato da un viaggio in Grecia (viaggio di istruzione, come si direbbe oggi – gita scolastica, come dicevamo allora), il cui ricordo più intenso è legato a Capo Sounion, il promontorio all’estremità meridionale dell’Attica dal quale si tuffò, per annegare, Egeo. Suo figlio Teseo, partito per Creta, gli aveva promesso che, se avesse sconfitto il Minotauro, al suo ritorno verso Atene avrebbe issato vele bianche, ma se ne dimenticò: Egeo, scrutando il mare da Capo Sounion, vide avvicinarsi vele nere e, convinto che Teseo fosse morto, si uccise annegando nel mare che avrebbe preso il suo nome.
Nel mio ricordo, dei resti dei templi dedicati a Poseidone e ad Atena c’era solo una colonna bianchissima contro l’azzurro di cielo e mare nella primavera inoltrata. Una sola colonna o forse due, ma sicuramente quella sulla quale è incisa la firma di Lord Byron (che fosse autentica non ci ho creduto nemmeno allora). L’incanto del momento mi fa ricordare quella colonna come se fosse stata ionica, elegantissima e snella, e non dorica come, invece, è. Ricordo Capo Sounion come un’oasi, come un respiro di bellezza in un tempo vissuto in apnea.

A Capo Sounion
posano nuca, io
poso una icona.
Apnoica, oso un
suono, opaca in
anno cupo. Oasi.

(ogni verso è l’anagramma di a Capo Sounion)


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