Archive for the 'sonetti' Category

Il Ponfo

La delirante guerra tra opposte fazioni che imperversa in questi giorni sui social a proposito di vaccini mi ha fatto realizzare come la poesia metasemantica, se non fosse per una M di troppo, si potrebbe agevolmente anagrammare in poesia esantematica. L’avevo scritto ieri in un post su Facebook e ne era nata una conversazione, anch’essa abbastanza delirante ma divertente, con alcuni amici. Se poesia metasemantica evoca immediatamente il Lonfo, va da sé che malattia esantematica evochi il Ponfo. Da qui, grazie alla sollecitazione dell’amico Marco Alfano, è nata questa mia specie di parodia, sempre con tutto il rispetto e il grandissimo amore per Fosco Maraini e per le sue fanfole, già più volte mia fonte di ispirazione.

Il Ponfo

Il Ponfo non smorbilla e non varisce
rosseggia e derma, rascia e poi s’acquatta
e quando il savalente lo ghermisce
esanto e matico, sovente schiatta.

Rossolio è il ponfo e pieno di liquello
sbercia imbolloso, luspo, mai dermiente,
e in compagnia sgraffendo questo e quello,
sbrucia e sbrucia con grattico furente.

Eppure il vecchio ponfo scarlattino
che papuloso invéscica prudello,
se istaminchiando scurtichi eczemìno

t’abbandona, ti tira lo sgramello
crostico, e nello spazio d’un mattino
resti sperduta in fondo al varicello.

 

Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce,
sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.

È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.

Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa legica busia, fa gisbuto;

e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui, zuto
t’ alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

Fosco Maraini, Il Lonfo, in Gnòsi delle fanfole, Baldini&Castoldi, 1994, p. 23

Sonetto dei desideri (Esercizi svolti – 5)

Oggi questo blog compie 5 anni e, senza averlo deciso, mi ritrovo a festeggiarlo con il numero 5 degli Esercizi svolti. Grazie, come sempre, ai lettori abituali e ai lettori occasionali, ai commentatori, agli iscritti, agli incoraggiatori, agli spingitori.

Vorrei, io vorrei tanto esser capace
di iniziare un sonetto con “Vorrei”
e dire ciò di cui mi pentirei
e dire ciò che mi darebbe pace.

Vorrei saper trovare le parole
per dire esattamente il desiderio,
parole giuste come un improperio,
precise, vere, chiare come al sole

e invece mi gingillo e poi cincischio,
e giro a vuoto come non dovrei
ma a cercarle davvero non m’arrischio

quelle parole, quelle che direi,
e il vero, il falso, il riso e il serio* mischio
per scrivere un sonetto con “Vorrei”.

* il riso e il serio vengono da un anagramma di Stefano Bartezzaghi (riso è serio), che amo molto

Sonetto per una Rosa

[per la mia amica Rosetta]

Te ne sei andata con Umberto Eco
ma pensa un po’ gli scherzi del destino.
Come lui ci hai tenuti in un confino
di protezione, ignaro ognuno e cieco

di fronte a quel tuo incedere diverso,
ai segni chiari eppure impercettibili
della fatica, dei giorni indicibili
precipitati nel tuo tempo avverso.

Adesso è tutto chiaro, e sono certa
rideresti per questo mio saluto,
e ameresti, con me, questa giocosa

e gioiosa e bellissima scoperta
dovuta al modo in cui tutto è avvenuto:
è proprio il tuo il nome della Rosa.

Sonetto archiviato nella categoria “sciocchezze”

In una conversazione su Facebook, un paio di giorni fa, notavo come fioccassero i “mi piace” alla notizia che, dopo aver pensato di scrivere un sonetto, avevo invece deciso di fare una focaccia. Il sospetto che i miei amici, con il loro apprezzamento, volessero festeggiare uno scampato pericolo, mi ha indotta ad infliggere loro questo sonetto. (Sui social network, a volte, ci si diverte molto.)

Oggi volevo scrivere un sonetto
ispirata non so da quale musa,
come per abbellire di un balletto
di rime una giornata assai confusa,

ma poi: due etti e mezzo di farina
manitoba e altrettanta doppio zero,
più acqua, sale, lievito, e in cucina
poco lavoro (non mi è parso vero).

Impasto a lievitare per tre ore,
poi nella teglia (olio sotto e sopra)
un ultimo riposo e col calore
del forno, infine, si è compiuta l’opra.

Ma come fu che quell’ispirazione,
quell’afflato confuso e indistinto
che – oserei dir – mi si leggeva in faccia

trasmutò in gastronomica pulsione?
Io non lo so, so solo che d’istinto
deragliai: dalle rime alla focaccia.

Sonetto del personal computer (connesso)

Anche questo sonetto è un mio contributo al gioco delle Cose che ci sono in casa

Mio PC, tecnologico portento
che credevo strumento di lavoro,
hai spalancato le finestre al vento,
mi hai trascinata in un’età dell’oro.

Il sapere, le vite immaginate
e immaginarie, il vero e il falso, brama
di fama, riso e pianto a rate,
tutto in un formidabile diorama.

E voi chi siete, e chi vi ha convocati
elettrici fantasmi, ilari lari
familiari, insediati a casa mia?

Sconosciuti, mi diventate cari
(mi sbigottisce ancora la malìa)
poi spengo tutto e ve ne siete andati.

La scatola dei bottoni – Cronaca di un sonetto

Un mio sonetto, scritto per il gioco poetico Le cose che ci sono in casa che va avanti su vibrisse, era nato come componimento più lungo, nel quale si alternavano endecasillabi e settenari e che è stato poi rimaneggiato più volte da Giulio Mozzi e da me. Il risultato finale lo riscrivo qui, chi avesse voglia di conoscere tutti i passaggi può leggere qui.

La scatola dei bottoni

L’odore che conserva questa scatola
di latta, tra i bottoni, è quello stesso
che c’era in sartoria, dai nonni: piccola
sala – laboratorio – pranzo – ingresso.

Io lì in ginocchio, con la calamita,
dal pavimento chiaro di graniglia
aghi e spilli recuperavo ardita
beandomi di tanta meraviglia.

Questo odore leggero e un po’ stantìo
– fruga la mano, mescola – l’annuso
nel mare di bottoni e vado a fondo.

Ce n’è uno perfetto per quel mio
abito démodé: ma sì, lo uso!
Richiudo e mi riporto in questo mondo.

Guido Cavalcanti, un sonetto e un limerick

Una giovane donna di Tolosa potrebbe sembrare il verso iniziale di un limerick (vedi)  – e come tale sarebbe perfetto –  e invece è il primo endecasillabo di un sonetto di Guido Cavalcanti (Rime, XXIX):

Una giovane donna di Tolosa,
bell’ e gentil, d’onesta leggiadria,
è tant’e dritta e simigliante cosa,
ne’ suoi dolci occhi, della donna mia,

che fatt’ ha dentro al cor disiderosa
l’anima, in guisa che da lui si svia
e vanne a lei; ma tant’è paurosa,
che no le dice di qual donna sia.

Quella la mira nel su’ dolce sguardo,
ne lo qual face rallegrare Amore
perché v’è dentro la sua donna dritta;

po’ torna, piena di sospir’, nel core,
ferita a morte d’un tagliente dardo
che questa donna nel partir li gitta.

Mi sono permessa (che Cavalcanti mi perdoni!) di appropriarmi di quell’incipit e di comporre un limerick che è quasi una parodia, spero non troppo irriverente, del sonetto:

Una giovane donna di Tolosa
somigliava in maniera pa – u – rosa
alla sua: Cavalcanti
dacché quella con tanti
saluti lo mollò, più non riposa.

Sonetto della meteoropatia

Se lampi e tuoni arrivano improvvisi,
immediato mi afferra il mal di testa,
m’immusonisco: niente più sorrisi
fintanto che passata è la tempesta.

La nebbia agl’irti colli mi distrugge,
il vento sembra schiaffeggiarmi ostile
e m’atterrisce quando fischia e mugge,
e mi minaccia come uno staffile.

Cosa fa della pioggia sì gran pianto
da non poter sottrarmi all’empatia?
E perché il gelo mi si posa accanto?

Mi dicono ch’è meteoropatia;
μετέωρον (*), πάθος (**): ciò che avviene in alto
io lo patisco come cosa mia.

(*) Metéoron
(**) Patos

La mano (Vibrisse, Lodi del corpo maschile e un terzo esercizio)

Un altro esercizio di scrittura in forma chiusa, sempre per le Lodi del corpo maschile, come qui e qui.
Si tratta di un sonetto rinterzato, con lo stesso schema metrico di questo di Giulio Mozzi.
Che sia il terzo e sia rinterzato è stato un caso (bello) (spero non casus belli, anche), di cui mi sto rendendo conto mentre scrivo.

E sempre sia lodata anche la mano:
sarebbe un caso strano
che del corpo maschil d’encomio oggetto
dal piede al naso, dal tallone al petto,
rimanessi negletto,
primo strumento del genere umano. (*)

O mano che manovri, o Mana (**), o mano
che mi porti lontano
(l’ontano è il legno di Venezia, ho letto,
e di testiere ripide di letto),
ti dedico un sonetto
rinterzato in orario antelucano.

E scrivo e sembra di vederti, prensile
aprir l’anta del pensile,
stringer manubri, corde pizzicare
o decisa afferrare,
per spingerla, la leva del cambio, esile.

E m’inebrio di gesti quotidiani
(poi penso che domani,
tra le infinite cose che ho da fare
– a parte il verseggiare –
c’è da comprar la crema per le mani).

(*) anche in Wikipedia si annidano endecasillabi: vedi
(**) vedi vocabolario Treccani 

Sonetto rinterzato
AaBBbA AaBBbA CcDdC EeDdE

 

 


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