Posts Tagged 'sonetti'

Sonetto dei desideri (Esercizi svolti – 5)

Oggi questo blog compie 5 anni e, senza averlo deciso, mi ritrovo a festeggiarlo con il numero 5 degli Esercizi svolti. Grazie, come sempre, ai lettori abituali e ai lettori occasionali, ai commentatori, agli iscritti, agli incoraggiatori, agli spingitori.

Vorrei, io vorrei tanto esser capace
di iniziare un sonetto con “Vorrei”
e dire ciò di cui mi pentirei
e dire ciò che mi darebbe pace.

Vorrei saper trovare le parole
per dire esattamente il desiderio,
parole giuste come un improperio,
precise, vere, chiare come al sole

e invece mi gingillo e poi cincischio,
e giro a vuoto come non dovrei
ma a cercarle davvero non m’arrischio

quelle parole, quelle che direi,
e il vero, il falso, il riso e il serio* mischio
per scrivere un sonetto con “Vorrei”.

* il riso e il serio vengono da un anagramma di Stefano Bartezzaghi (riso è serio), che amo molto

Sonetto archiviato nella categoria “sciocchezze”

In una conversazione su Facebook, un paio di giorni fa, notavo come fioccassero i “mi piace” alla notizia che, dopo aver pensato di scrivere un sonetto, avevo invece deciso di fare una focaccia. Il sospetto che i miei amici, con il loro apprezzamento, volessero festeggiare uno scampato pericolo, mi ha indotta ad infliggere loro questo sonetto. (Sui social network, a volte, ci si diverte molto.)

Oggi volevo scrivere un sonetto
ispirata non so da quale musa,
come per abbellire di un balletto
di rime una giornata assai confusa,

ma poi: due etti e mezzo di farina
manitoba e altrettanta doppio zero,
più acqua, sale, lievito, e in cucina
poco lavoro (non mi è parso vero).

Impasto a lievitare per tre ore,
poi nella teglia (olio sotto e sopra)
un ultimo riposo e col calore
del forno, infine, si è compiuta l’opra.

Ma come fu che quell’ispirazione,
quell’afflato confuso e indistinto
che – oserei dir – mi si leggeva in faccia

trasmutò in gastronomica pulsione?
Io non lo so, so solo che d’istinto
deragliai: dalle rime alla focaccia.

Sonetto del personal computer (connesso)

Anche questo sonetto è un mio contributo al gioco delle Cose che ci sono in casa

Mio PC, tecnologico portento
che credevo strumento di lavoro,
hai spalancato le finestre al vento,
mi hai trascinata in un’età dell’oro.

Il sapere, le vite immaginate
e immaginarie, il vero e il falso, brama
di fama, riso e pianto a rate,
tutto in un formidabile diorama.

E voi chi siete, e chi vi ha convocati
elettrici fantasmi, ilari lari
familiari, insediati a casa mia?

Sconosciuti, mi diventate cari
(mi sbigottisce ancora la malìa)
poi spengo tutto e ve ne siete andati.

La scatola dei bottoni – Cronaca di un sonetto

Un mio sonetto, scritto per il gioco poetico Le cose che ci sono in casa che va avanti su vibrisse, era nato come componimento più lungo, nel quale si alternavano endecasillabi e settenari e che è stato poi rimaneggiato più volte da Giulio Mozzi e da me. Il risultato finale lo riscrivo qui, chi avesse voglia di conoscere tutti i passaggi può leggere qui.

La scatola dei bottoni

L’odore che conserva questa scatola
di latta, tra i bottoni, è quello stesso
che c’era in sartoria, dai nonni: piccola
sala – laboratorio – pranzo – ingresso.

Io lì in ginocchio, con la calamita,
dal pavimento chiaro di graniglia
aghi e spilli recuperavo ardita
beandomi di tanta meraviglia.

Questo odore leggero e un po’ stantìo
– fruga la mano, mescola – l’annuso
nel mare di bottoni e vado a fondo.

Ce n’è uno perfetto per quel mio
abito démodé: ma sì, lo uso!
Richiudo e mi riporto in questo mondo.

Guido Cavalcanti, un sonetto e un limerick

Una giovane donna di Tolosa potrebbe sembrare il verso iniziale di un limerick (vedi)  – e come tale sarebbe perfetto –  e invece è il primo endecasillabo di un sonetto di Guido Cavalcanti (Rime, XXIX):

Una giovane donna di Tolosa,
bell’ e gentil, d’onesta leggiadria,
è tant’e dritta e simigliante cosa,
ne’ suoi dolci occhi, della donna mia,

che fatt’ ha dentro al cor disiderosa
l’anima, in guisa che da lui si svia
e vanne a lei; ma tant’è paurosa,
che no le dice di qual donna sia.

Quella la mira nel su’ dolce sguardo,
ne lo qual face rallegrare Amore
perché v’è dentro la sua donna dritta;

po’ torna, piena di sospir’, nel core,
ferita a morte d’un tagliente dardo
che questa donna nel partir li gitta.

Mi sono permessa (che Cavalcanti mi perdoni!) di appropriarmi di quell’incipit e di comporre un limerick che è quasi una parodia, spero non troppo irriverente, del sonetto:

Una giovane donna di Tolosa
somigliava in maniera pa – u – rosa
alla sua: Cavalcanti
dacché quella con tanti
saluti lo mollò, più non riposa.

Sonetto della meteoropatia

Se lampi e tuoni arrivano improvvisi,
immediato mi afferra il mal di testa,
m’immusonisco: niente più sorrisi
fintanto che passata è la tempesta.

La nebbia agl’irti colli mi distrugge,
il vento sembra schiaffeggiarmi ostile
e m’atterrisce quando fischia e mugge,
e mi minaccia come uno staffile.

Cosa fa della pioggia sì gran pianto
da non poter sottrarmi all’empatia?
E perché il gelo mi si posa accanto?

Mi dicono ch’è meteoropatia;
μετέωρον (*), πάθος (**): ciò che avviene in alto
io lo patisco come cosa mia.

(*) Metéoron
(**) Patos

La mano (Vibrisse, Lodi del corpo maschile e un terzo esercizio)

Un altro esercizio di scrittura in forma chiusa, sempre per le Lodi del corpo maschile, come qui e qui.
Si tratta di un sonetto rinterzato, con lo stesso schema metrico di questo di Giulio Mozzi.
Che sia il terzo e sia rinterzato è stato un caso (bello) (spero non casus belli, anche), di cui mi sto rendendo conto mentre scrivo.

E sempre sia lodata anche la mano:
sarebbe un caso strano
che del corpo maschil d’encomio oggetto
dal piede al naso, dal tallone al petto,
rimanessi negletto,
primo strumento del genere umano. (*)

O mano che manovri, o Mana (**), o mano
che mi porti lontano
(l’ontano è il legno di Venezia, ho letto,
e di testiere ripide di letto),
ti dedico un sonetto
rinterzato in orario antelucano.

E scrivo e sembra di vederti, prensile
aprir l’anta del pensile,
stringer manubri, corde pizzicare
o decisa afferrare,
per spingerla, la leva del cambio, esile.

E m’inebrio di gesti quotidiani
(poi penso che domani,
tra le infinite cose che ho da fare
– a parte il verseggiare –
c’è da comprar la crema per le mani).

(*) anche in Wikipedia si annidano endecasillabi: vedi
(**) vedi vocabolario Treccani 

Sonetto rinterzato
AaBBbA AaBBbA CcDdC EeDdE

 

 

Muscolo sternocleidomastoideo (Vibrisse, Lodi del corpo maschile e un esercizio)

Giulio Mozzi, nel blog Vibrisse, ha proposto un nuovo gioco letterario, coinvolgendomi (bontà sua) nell’iniziativa: si tratta di produrre una raccolta di Lodi del corpo maschile, ispirata a Les Blasons Anatomiques du Corps Féminin, raccolta curata, nel 1536, dal poeta francese Clément Marot, già autore della “Lode alla bella tetta” (Blason du beau tétin).

Per la partecipazione, riservata “alle donne eterosessuali e ai maschi omosessuali – e a chiunque, per proprio orientamento sessuale, desideri il corpo maschile”, bisogna seguire alcune regole che “vanno prese come indicazioni. Ciò che conta, alla fin fine, è che la Lode sia bella. Però cercate di tenerne conto.”

Tra le regole del gioco, questa:
“Forme chiuse, per piacere: sonetti, ballate, canzoni, rispetti, rondò ecc.; o anche forme semichiuse, come i madrigali (di tipo cinquecentesco). Non necessariamente regolari. Nell’originale francese si trovano molte ballate: la forma era allora molto di moda, ma io la trovo anche piuttosto adeguata alla lode (grazie al ritornello).”

Qui è possibile leggere tutte le Lodi finora pervenute e pubblicate sul blog (la selezione successiva sarà finalizzata alla produzione di una pubblicazione, molto probabilmente digitale). 

Oggi c’è un mio esercizio, un sonetto dedicato al muscolo sternocleidomastoideo (che è un endecasillabo di per sé, dunque non potevo farmelo sfuggire):

Sonetto del muscolo sternocleidomastoideo

Muscolo sternocleidomastoideo,
maschio pilastro del collo tornito,
a te va questo canto un po’ euclideo,
di geometrie mirabili nutrito.

Per te si va verso il lobo adorato,
per te, sfiorato, all’agile mandibola,
per te le labbra vanno alla clavicola,
o battistrada verso il corpo amato.

Muscolo sternocleidomastoideo,
pura sostanza michelangiolesca,
a te va questo canto un po’ esiodeo

dal quale, infine, occorre che io esca:
per te m’infiammo, per te ardo e bollo
se non t’infiammi tu, pel torcicollo.

Vibrisse, Tipi umani e un sonetto

Un po’ di giorni fa ho scoperto, grazie a una segnalazione dell’amico Massimo Giuliani, che Giulio Mozzi proponeva, su Vibrisse, bollettino di letture e scritture, di cimentarsi nella scrittura di Tipi umani in forma di sonetto, fornendone alcuni esempi, insieme alle regole del gioco.
La malìa dell’endecasillabo mi ha presa, come al solito, e ci ho provato anch’io

Complici inconsapevoli, oltre al consapevole Massimo, sono stati Valerio Magrelli, Stefano Bartezzaghi (che ha riportato sul suo ultimo libro, Il falò delle novità, una delle poesie di Magrelli che amo di più) e Umberto Eco. E anche, un po’, Giacomo Leopardi.

Io fumo e fumo pure camminando,
di questa cosa non so fare a meno,
non ho pace se il bronco non è pieno
di fumo, e fumo pure passeggiando.

Se scrivo, fumo, e fumo lavorando,
fumo se penso (e penso: “m’avveleno!”),
fumo se guido – non mi tengo a freno –
ma soprattutto fumo camminando.

E camminando, dopo ogni boccata,
il fumo già soffiato lo attraverso,
sto dov’era diretta la soffiata

e recupero quel residuo perso
che mi precede nella camminata
e in cui, lieto e pensoso, sono immerso.

Ispirata da una poesia di Valerio Magrelli (*), già dopo il primo endecasillabo (dove “Io cammino fumando” è diventato “Io fumo e fumo pure camminando”) mi sono resa conto che quella parodia non poteva funzionare con la quantità di versi richiesta da un sonetto; quindi ho abbandonato l’idea e, pur conservando l’ispirazione magrelliana, ho deciso di limitarmi a descrivere il tipo umano “fumatore incallito”: da questo è scaturito il “non so fare a meno” che ha determinato le rime seguenti (“freno”, poi, mi è stata suggerita dalla guida).

Nelle terzine finali torna la parodia, con l’aggiunta di una citazione (“lieto e pensoso”) che mi è venuta in mente perché avevo da poco ascoltato un intervento di Umberto Eco e Stefano Bartezzaghi alla “Repubblica delle idee”, nel quale Eco aveva recitato alcuni versi di “A Silvia”. Naturalmente, nella poesia di Magrelli non c’è alcun accenno al tabagismo, che invece ho voluto rimarcare con il primo verso dell’ultima terzina, dove l’ansia di recuperare anche il fumo già soffiato (perso) si è integrata con l’esigenza della rima con “attraverso”.

(*)
Io cammino fumando
e dopo ogni boccata
attraverso il mio fumo
e sto dove non stavo
dove prima soffiavo.

(Valerio Magrelli, Nature e venature, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1987)


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