1. Ero a Napoli e la mia vita quotidiana di studentessa fuori sede si svolgeva, nei primi anni, principalmente lungo il decumano che mi portava da casa alla facoltà di architettura e ritorno: era il decumano inferiore, quello conosciuto come Spaccanapoli, che percorrevo a partire da via Duomo fino a Santa Chiara, alla statua del Nilo, al bugnato di piazza del Gesù e infine a Palazzo Gravina.
Molto più raramente percorrevo, invece, il decumano maggiore, via dei Tribunali, passando accanto alla piccola chiesa barocca di Santa Maria delle anime del Purgatorio, ma soprattutto accanto ai due paracarri ai lati della scala, con in cima due teschi di bronzo, che se sfiorati portavano fortuna ma non per questo erano meno inquietanti, come nelle intenzioni di chi li aveva concepiti, come quelli della balaustra della Certosa di San Martino.
Un giorno, passando per quella strada notai un edificio che avevo sempre visto chiuso per lavori in corso e che ora, fresco di restauro, aveva il portone aperto. Era il Pio Monte di Misericordia. Non ne sapevo niente, non sapevo cosa custodisse e non so dire perché non potei fare a meno di entrare.
La prima cosa che mi trovai di fronte, e l’unica di cui conservo il ricordo, fu “Le sette opere di Misericordia” di Caravaggio. Non sapevo che quel dipinto fosse lì, né dove fosse stato custodito durante i lavori di restauro dell’edificio, non sapevo niente di niente. Per un attimo pensai fosse una stampa, una riproduzione, ero confusa per la casualità totale di quell’incontro ma anche per una sua certa inevitabilità: passi per una strada del centro antico di Napoli (antico, in facoltà ci tartassavano sul fatto che quello era il centro antico, non il centro storico), tra strilli e sfrecciare di motorini e frutta e verdura e pesce e vini e olii e boulangerie e banco lotto e crémerie, ti volti a guardare oltre una porta aperta e dopo pochi secondi ti trovi davanti a Caravaggio: sembrava impossibile, eppure perfettamente coerente.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Sette opere di Misericordia, 1606-1607, Olio su tela, 390×260 cm, Napoli, Pio Monte della Misericordia
2. Ero a Roma da visitatrice e camminavo lungo Corso Rinascimento. Sicuramente ero entrata in San Luigi dei Francesi, una chiesa di cui non ricordo mai niente e di cui non saprei dire niente: ogni volta che ci sono entrata sono andata direttamente verso la navata laterale sinistra e l’ho percorsa fino alla cappella Contarelli per ubriacarmi di Caravaggio, a volte nella penombra, a volte nella luce elettrica a tempo e al costo di una moneta. Ero intontita e abbagliata – non so se più dalla luce che mi aveva investita all’uscita dalla chiesa o da quella caravaggesca che mi aveva accolta nella cappella – e stavo costeggiando un edificio la cui facciata rifletteva ancora luce del sole caldo di quel giorno. Sul muro vasto, tinteggiato di ocra, quasi completamente privo di aperture per tutto il primo livello e che sembrava non finire mai, a un certo punto si aprì un portone oltre il quale non potei fare a meno di guardare e poi andare, attratta da qualcosa che ancora non sapevo e che mi mosse con tutta la forza della sua bellezza. Scoprii che mi trovavo nel cortile di Sant’Ivo alla Sapienza e che avevo di fronte a me la facciata della chiesa di Borromini, di cui conoscevo, dalle foto e dai disegni, la meravigliosa pianta fondata su una stella a sei punte, e poi la lanterna elicoidale e quanto ne aveva scritto Paolo Portoghesi.
Quando alzai lo sguardo, la spirale in cima alla cupola disegnò perfettamente la mia vertigine.

Cortile della Sapienza e chiesa di Sant’Ivo
Di questo incontro ho avuto modo di scrivere/anagrammare anche qui.
3. Sempre a Roma e sempre da turista, diversi anni dopo, camminavo per Via del Corso e non ricordo da dove venivo né dove andavo, so solo che in quel momento ero sul lato sinistro della strada in direzione di Piazza Venezia, camminavo e guardavo le vetrine. Un negozio mi attrasse non tanto per quello che mostrava la vetrina (non ricordo nemmeno cosa esattamente ci fosse esposto o se ci fosse esposto qualcosa) ma perché dalla porta vedevo una galleria con una prospettiva che mi sembrò falsa come quella borrominiana di Palazzo Spada: uno specchio, sul fondo, raddoppiava lo spazio scandito da colonne e, riflettendo la stessa porta a vetri dell’ingresso, creava illusionisticamente una seconda apertura, insomma un percorso dall’ingresso a un’uscita che in realtà era inesistente. Il controsoffitto era un intreccio di linee curve che partivano dalle colonne come costoloni di volte a crociera, ma in assenza di volte a crociera. Tutto questo mi fece pensare al barocco, a Borromini, o a una moschea. Pensai che sembrava un lavoro di Paolo Portoghesi. Niente di paragonabile all’epifania di Caravaggio e a quella di Borromini, però ne fui molto colpita. Qualche tempo dopo, scoprii su una rivista che sì, la ristrutturazione dello “show room Sarteur” in via del Corso era proprio un progetto di Paolo Portoghesi, l’autore di Roma Barocca, esperto di Borromini, progettista della Grande Moschea di Roma.
Di quel negozio non è rimasto niente della ristrutturazione di Portoghesi. In un suo libro pubblicato recentemente, c’è un passaggio su tre sue opere romane, tra le quali proprio la galleria Sarteur, che Portoghesi dichiara «[…] già distrutte. Forse queste tre opere avevano la transitorietà nel sangue perché alludevano a spazialità contraddittorie e allusive, e nella memoria sono incise come storie impossibili, apparse per un momento, proiettate su uno specchio da una lanterna magica».
Forse le cose che amiamo, eterne o effimere che siano, non siamo noi a cercarle. Sono loro a trovarci, in un modo o nell’altro, ed è per questo che ce ne innamoriamo.
P. S. E ce ne innamoriamo anche perché insistono a cercarci: ieri sera, mentre scrivevo questo post e cercavo disperatamente un’immagine della galleria di Portoghesi (trovandone solo una), ho visto alcune fotografie degli interni di casa sua. Su una parete, una bellissima carta da parati di William Morris. Stamattina, una mia amica ha pubblicato su facebook la foto di una tazzina con un bellissimo disegno di William Morris. Mi sembra che il disegno sia esattamente lo stesso. E mi viene quasi da piangere.
La foto del dipinto di Caravaggio viene da qui, quella del cortile della Sapienza è mia, quella della carta da parati di William Morris viene da qui, l’ultima è di Annalisa Passigli.
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