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Quell’anno fu veramente cupo – come l’anagramma ha puntualmente svelato – ma rischiarato da un viaggio in Grecia (viaggio di istruzione, come si direbbe oggi – gita scolastica, come dicevamo allora), il cui ricordo più intenso è legato a Capo Sounion, il promontorio all’estremità meridionale dell’Attica dal quale si tuffò, per annegare, Egeo. Suo figlio Teseo, partito per Creta, gli aveva promesso che, se avesse sconfitto il Minotauro, al suo ritorno verso Atene avrebbe issato vele bianche, ma se ne dimenticò: Egeo, scrutando il mare da Capo Sounion, vide avvicinarsi vele nere e, convinto che Teseo fosse morto, si uccise annegando nel mare che avrebbe preso il suo nome.
Nel mio ricordo, dei resti dei templi dedicati a Poseidone e ad Atena c’era solo una colonna bianchissima contro l’azzurro di cielo e mare nella primavera inoltrata. Una sola colonna o forse due, ma sicuramente quella sulla quale è incisa la firma di Lord Byron (che fosse autentica non ci ho creduto nemmeno allora). L’incanto del momento mi fa ricordare quella colonna come se fosse stata ionica, elegantissima e snella, e non dorica come, invece, è. Ricordo Capo Sounion come un’oasi, come un respiro di bellezza in un tempo vissuto in apnea.
A Capo Sounion
posano nuca, io
poso una icona.
Apnoica, oso un
suono, opaca in
anno cupo. Oasi.
(ogni verso è l’anagramma di a Capo Sounion)
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